A volte succede. Succede che l’Universo ti scarica addosso troppe cose. E tu devi per forza dirlo quel ti prego, fermati, ho bisogno di un attimo, fermati. Perché a volte i puntini da unire sono troppi e il loro peso troppo denso da disegnare.
Uno di questi puntini è quel libro avuto in regalo da chi mi conosce ancora poco, un altro è una citazione di San Francesco che mi arriva in mano pescandola a caso da una ciotola, un altro è una pietra che protegge, un’amica con le parole giuste, un respiro in più quando serve. Un altro puntino è la frase qui sopra. Perché è scomodo stare nel dolore, e ancor più faticoso è starci assieme a qualcuno che da quel dolore è morsicato, come una corteccia consumata dagli xilofagi. Che visto da fuori… quei bei disegni astratti e contemporanei, la sofferenza che fa evolvere e crescere, pare pure una cosa bella. Ma da dentro, possiamo anche dircelo, è na merda.
Perché a meno di non avere qualche devianza, non ci piace soffrire. E non ci piace vedere le altre persone che soffrono. Soprattutto quando per loro siamo pieni d’amore.
Istintivamente vorremmo che si sentissero subito meglio, vorremmo fare qualcosa al loro posto, noi che siamo forti mentre loro sono sbriciolate.
L’impotenza è una brutta compagnia con cui condividere le ore. Sentiamo il dovere di fare, dire. Fare luce in quell’oscurità, magari involontariamente puntando una torcia negli occhi di chi li ha già stanchi di pianto.
Facciamo lo stesso verso noi stessi, senza realizzare quanto questo sia dolorosamente (…) invalidante. Non possiamo essere negativi, è quello l’imperativo che pronunciamo o che ascoltiamo. Come se fosse uno sbaglio, un disagio per sé e per gli altri (e in parte lo è o in poco tempo lo diventa), come se fosse una colpa soffrire di qualcosa che mina il cuore come la dinamite sventra una cava.
Ecco allora che scatta la trappola: quella positività fasulla imposta o desiderata, innaturale, forzata, tossica. Quella storpiatura che fa la vita così banale: pensa positivo e la tua esistenza lo sarà altrettanto. Supera in fretta il problema, così poi. Così poi cosa?
Obiettivo: minimizzare sentimenti complessi anziché dare tempo, spazio, e soprattutto permesso di attraversarli, viverli, elaborarli.
La speranza più profonda viene invece proprio dal buio.
Dal sedersi nell’oh-scuro, e meravigliarsi di riuscire ancora a respirare, prima annaspando senz’aria, poi con la sensazione di volersi strappare la pelle per fare spazio al fiato, poi contraendo lo stomaco come uno straccio da strizzare.
Ma, in un modo o nell’altro, respirando. Lì.
Quindi basta, per favore.
Basta col dire che se si resta positivi le cose andranno per il meglio. Quel “andrà tutto bene” che abbiamo letto e ascoltato in mesi ancora troppo recenti ci ha dimostrato una cosa. Sticazzi.
Basta con i “starai bene, vedrai”. Certo, se bene vuol dire non morire, le probabilità dicono che è raro morire di dolore. Ma se speri in qualcosa di meglio di quell’asciutto “bene”, allora dovrai nutrirti con avidità di piccole cose che non puoi più dare per scontate, la lampada di sale accesa per te sola, le foglie di un pothos, il profumo del pane che un’amica ti offre e sfama più il cuore della pancia.
Basta anche con la fiducia incondizionata nell’universo. Perché la fiducia non è garanzia che il dolore non verrà mai a farsi offrire un the nel tuo salotto, prendendo con disinvoltura il posto di un’assenza.
Magari provare un po’ ad allenarla la fiducia, quello forse sì. La fiducia di poter affrontare anche le situazioni più oscene per il male che fanno, che non hai scelto, ma da cui puoi setacciare qualcosa.
Basta poi con quei “devi cambiare atteggiamento”. Nessuno di noi ha quel potere magico per cui cambiando comportamento improvvisamente la realtà cambia. Cambiare è un processo lungo una vita, è la vita. Essere pazienti, gentili, teneri: quello sì possiamo farlo. Provare a vedere nuove prospettive con il tempo che serve, dentro l’abbraccio della cura.
Basta con quelle frasi fatte del “sei fortunata”, “c’è chi sta peggio”. Che sono verità, certo, ma cui non possiamo dare il potere di invalidare i sentimenti che abbiamo in corpo. Tutti soffrono. Rendere insignificante il nostro male non farà star meglio noi, e neanche gli altri. Accogliere quello che crea disagio o crepa il sorriso invece sì. È ciò che serve per allentare la contrazione del dolore, dell’ansia, della tristezza, delle aspettative. E far loro mollare un po’ la presa.
Basta anche con “la vita è breve”, dai. Perché quando quel dolore è lì con te la vita è eterna, le ore infinite. A volte serve solo il sollievo di poter chiedere aiuto.
Basta con quei “tutto accade per un fine più alto”. A un certo punto sai che c’è? Fanculo anche al fine alto.
E no, non sto dicendo che essere positivi sia sempre sbagliato, o stucchevole, o inutile.
Dico solo che nessuna emozione è migliore di un’altra, sono emozioni, con cui vale la pena stare.
Per il tempo che serve.
Accelerare la guarigione, negare un processo a vantaggio di un risultato, ci rende vittime di un abuso del nostro tempo: quello di avere una timeline per ogni cosa.
O risolvo o lascio perdere, perché bisogna andare avanti, assuefatti ma coerenti con la missione assegnata. Rincoglioniti e irriconoscibili prima di tutto a noi stessi, ma ben riparati dietro lo scudo emotivo che abbiamo eretto per mostrarci sicuri, accettabili, nascondendo la paura di lasciarsi essere – e lasciarsi vedere – in-sicuri. Che visto da un altro punto di vista, quell’in-sicuro ti porta molto più dentro la sicurezza. Ti ci immerge.
Preferiamo essere reagenti, come sentinelle di un format che contestare è peccato.
Fermarsi è un illecito, un attentato del tempo preso.
Ma lasciar perdere non è lasciar andare. È arrendersi, che è ben diverso.
La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore. Lo diceva Nietzsche, che di cose scomode ne ha dette mica poche, e sicuramente questa è una.
E allora basta desiderare di eliminare il dolore per amore. Perché l’amore quel dolore lo accarezza, lo culla, lo coccola, lo scalda dentro una coperta Azteca di lana morbida o gli mette un gilet di pile sulle spalle, lo disseta con una camomilla che diventa l’abitudine di tante sere, lo rassicura con un ti voglio bene in più del solito.