È umido. Qui sotto si soffoca. Sono bloccato, mi sembra di scoppiare. Non si vede niente, non posso muovermi. La terra mi si incolla addosso, non so nemmeno in che direzione andare.
Ho solo voglia di esplodere. Ho bisogno di esplodere.
Però, aspetta. È come se qualcosa mi attirasse verso il basso, devo scavare, setacciare l’oscurità per nutrirmi, andare incontro al nero che ho intorno, che mi avvolge come una coperta ruvida. Sento una violenza che riconosco, la voglia di rompere, di rompermi.
Il tempo è infinito qui, dentro questo odore che non so dire, che sa di bagnato, di minerale.
Devo fare qualcosa, o il senso di tutto questo non avrà senso. No, no, devo spingere verso l’alto. Devo uscire. Devo sollevare questa zolla, perforarla con la fragilità di un sospiro. Sento già il sollievo dell’ossigeno. Devo aprirmi un varco alla luce. Salire per respirare.
Devo diventare quella prima foglia che sarà, di nuovo, inizio.
Mi chiedono ogni tanto di “aprire una finestra” su qualche tema.
Il mio primo pensiero, che di solito all’interlocutore taccio, è: perché proprio io? Perché proprio io dovrei aprire una finestra, quando vorrei solo chiudere tutto, raggomitolarmi nel silenzio dell’incertezza, dello sconforto, di quest’opaca solitudine?
Io, che vorrei solo addormentarmi per un tempo indefinito, far riposare il cuore dal dolore, dalla paura, dall’ingiustificabile assurdità di questi tempi, di questa vita…
Perché io?
Ma poi sono qui. Sono qui come quel seme, a fare i conti con due forze opposte e complementari, eppure compresenti, e necessarie.
Sono qui a fare io stessa esperienza di un certo geotropismo dell’anima.
Geotropismo, sì. Dal greco γῆ, “terra” e τέπομαι, “mi rivolgo”. È una forza che strattona, un’energia arcaica, una relazione. Il geotropismo è uno stimolo che indica la direzione della gravità – che poi vabbè, come una forza che ti attira verso la terra possa chiamarsi “grave”, proprio non lo so. Ma questa è un’altra storia.
Il geotropismo è qualcosa che le piante sperimentano in due poli: quello negativo, che chiama il fusto a salire verso il cielo; e quello positivo, che attira le radici verso il basso.
E ancora una volta resto inebetita di fronte alla potenza detonante del linguaggio, che nel suo esasperato bisogno di raccontare del mondo e di noi si cimenta a esprimere ciò che la natura già sa, e non ha bisogno di dire. Come per esempio il fatto che una forza “negativa”, a volte, sia quella che ti spinge a risalire. O il fatto che una spinta positiva, a volte, sia quella che ti cala in profondità, verso il centro.
E a dire il vero, questa cosa la adoro. Questa che la natura scombini i piani di lettura. Li spazza via come i monaci alla fine di un màndala e ne fa forme nuove. Ma sì, avete presente i màndala?
Quei bei cerchi colorati, che adesso va parecchio di moda colorare per rilassarsi. E in effetti sì, colorarli allenta la presa sulla tensione… ma è davvero solo questo che ci serve?
Per tornare al linguaggio, màndala è un termine sanscrito polisemico, di origine dibattuta, a cui, semplificando, possiamo dare il significato di “una forma rotonda che separa, che raccoglie l’essenza”.
Il màndala è una rappresentazione del cosmo, costruita con l’allenamento della pazienza e dell’attenzione, due virtù supreme con le quali abbiamo purtroppo perso familiarità.
È un magnifico disegno di polveri colorate, che quando si ritiene concluso viene benedetto, onorato, ringraziato e poi distrutto, spazzato via come le briciole da un tavolo. È un esercizio lento ed estremo di accettazione dell’impermanenza: nulla dura per sempre, per quanto meravigliosa, laboriosa, faticosa, dolorosa e sfidante sia stata la sua venuta al mondo.
Distruggere a volte è un gesto indispensabile, un gesto che, tanto quanto il creare, guarisce. Guarisce dall’attaccamento e dalla venerazione del risultato, che ci fa sentire realizzati, invincibili.
Guarisce da quella pandemia beffarda che senza clamore ci ha ormai contagiati tutti, facendoci diventare conquistatori dell’inutile.
Ecco allora, forse è lì il segreto. È saper riconoscere che c’è “un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire”.
È saper ripulire, per tornare all’essenziale. Che poi questo fa la natura. Ci indica la strada per percepire il prezioso e irripetibile, l’incantevole anche se avrà presto una fine – o forse, l’incantevole proprio perché avrà presto fine. È il tramonto. È l’autunno. È il sereno dis-incanto dell’ineluttabile.
In Giappone questo sentimento ha una sua espressione: MONO NO AWARE. Aware è parola antica, risale al periodo classico e rende conto di quando, prima ancora della parola, era il suono, il respiro, il Verbo.
Aware è l’emozione, ah-wahhh, è lo stupore intenso e il saper lasciarlo andare, è contrazione e rilascio, meccanismo vitale per gestire qualunque cosa: la salute, le energie, le relazioni, la digestione, il respiro.
E la vita, come la salute e la bellezza, è in fondo questione di buona circolazione. Questione di stagioni, quella della rugiada che cristallizza sull’erba, quella delle rondini che partono, quella dei palchi dei cervi che cadono. I Giapponesi di stagioni ne riconoscono durante l’anno 72. Piccoli movimenti dentro il mondo che abitiamo, che rilasciano una bellezza breve, di appena pochi giorni.
Relazionarsi con la natura cura.
Cura le nostre prospettive, la nostra anima, il nostro sistema immunitario. Anche se non ci rende immuni, né alla sofferenza, né alla confusione, né alla disperazione.
Non ci rende immuni nemmeno alla gioia.
Molti popoli indigeni coltivano la consapevolezza di appartenere a un organismo più grande del semplice essere umani o della semplice rete sociale di cui fanno parte. Un organismo che non è connotato positivamente o negativamente, ma che di positivi e negativi ne contiene infiniti: le cose esistono e per questo solo fatto hanno un perché. E che io questo perché lo capisca oppure no non è importante. L’importante è lasciare spalancata quella finestra (!) con l’umiltà – e quella sì è consapevole – dell’apertura all’invisibile.
La natura garantisce ovunque equilibrio tra violenza e dolcezza, non nega l’una, non favorisce l’altra. Semplicemente nell’alternanza trova la ragione di un movimento indispensabile, motore dell’esistenza. E noi?
Noi forse potremmo porci più spesso in ascolto e imparare a considerare, ovunque, la spiazzante inevitabile compresenza del bene e del male.