perché di solito è così che funzionano le porte.
La prima volta che ho incontrato questa affermazione, qualche anno fa, ho sentito nel cuore una piccola scarica elettrica. Ricordo benissimo dov’ero, con chi ero, com’ero vestita. Un piccolo shock.
Per una cosa così elementare, e per giunta inconfutabile?
Già. Perché funziona così a volte, che certe osservazioni molto scontate, che peraltro descrivono una sconcertante banalità del reale, ti spalancano prospettive interpretative impensabili.
Però a pensarci… siamo cresciuti a suon di saggezza somministrata in pillole, cose del tipo “chiusa una porta si apre un portone” e altre amenità affini. Ci siamo abituati a interpretare la nostra vita come una serie di situazioni one-shot, o la va o la spacca e, se non va, a girarci subito altrove come se niente fosse accaduto, pressati dall’ottimismo che teme i fallimenti più della peste (o della pandemia, per aggiornare un po’ i nostri paragoni).
Se ormai non c’è più nulla da fare, punto. La promessa di un domani migliore è altrove.
Invece.
Invece, diciamocelo, le nostre vite sono il risultato di tutte le porte che abbiamo aperto e poi chiuso e poi riaperto e poi richiuso, di quelle che ci hanno sbattuto in faccia e di quelle che abbiamo solo accostato, sperando che una mano o un soffio di vento le spalancasse.
In ogni caso sono porte – cioè aree di passaggio – che abbiamo oltrepassato per poi tornare sui nostri passi, magari perché a quell’indirizzo viveva un sogno, una persona amata, un ideale a cui è difficile rinunciare, un buon lavoro, una situazione di cui eravamo prigionieri innamorati o evasori in erba.
La possibilità di crescere dipende dalla volontà di continuare a muoversi, esplorando spazi.
Attraversandoli. Confidando nella sensazione intuita di poterci ancora muovere, entrare o uscire – o semplicemente passare.
La tendenza a sovra-analizzare, o meglio ad agonizzare sulle nostre decisioni, ci impedisce di vivere dentro le cose che stiamo vivendo.
Eppure davanti a noi si aprono opportunità di nuovi orizzonti, nuovi sguardi se siamo in grado di cercarli, interpretarli, vederli.
Restare sulla soglia non è una condanna, ma è funzionale solo nel tempo, limitato, del rispetto che precede l’accesso, o l’arrivederci.
Non è condizione che possiamo mantenere a lungo, perché è l’unica posizione che impedisce a quella porta di fare il suo lavoro, cioè aprirsi e chiudersi, aprirsi e chiudersi.
E lì, proprio sulla soglia, proliferano quelle voci provenienti dall’esterno o dall’interno che ci riempiono il cuore di dubbi e vogliono scoraggiarci a muoverci, a scegliere, a crescere. Esprimono le paure e le insicurezze di cui ciascuno porta il peso nel proprio bagaglio esistenziale, e per questo non possiamo biasimarle. Ma si quieteranno, non appena faremo un passo oltre quella linea.
Ogni volta che ci spostiamo da quella condizione sospesa tra il dentro e il fuori mettiamo in moto possibilità.
Non importa quali, non importa se ci ricrediamo e le ripensiamo, è importante restare in movimento: perché solo così creiamo quella memoria emotiva che ci ricorderà che funziona, e ci incoraggerà a crescere mettendo da parte le paure.
Sentiremo sempre quel brivido dell’accogliere o del rinunciare, ma diventeremo sempre più fiduciosi in noi stessi e in quella rete di condizioni universali che intreccia possibilità nelle nostre vite.