Yoga. Negli anni mi ha insegnato a prendermi cura di corpo, cuore e mente con la stessa dedizione e attenzione. Perché è una sinergia che si sviluppa nel fragile equilibrio delle parti, nell’unione “affinché non siano più divisibili”. Che poi è anche il significato stesso della parola yoga.
Sentirsi tutt’uno con se stessi e con le cose del mondo: sentire le connessioni, esplorarle, conoscerle, avvicinarcisi con curiosità e cautela.
Aprirsi alle relazioni in un modo nuovo, interconnesso, multiplo. Abitarle come si abita il corpo, casa dentro la casa più grande, quella della natura.
Ho cominciato a sperimentare varie pratiche di yoga con l’idea di sgranchirmi il fisico e diminuire lo stress. Non posso dire, dopo 5 o 6 anni di pratica (non ricordo), di sentirmi un giunco flessibile né un’anima in pace con il mondo. Sono ancora irrigidita dalla postura e dalle delusioni e vivo ancora sotto la pressione delle cose da fare, delle aspettative da soddisfare.
Qualcosa però è cambiato.
E il merito va tutto a questo percorso verso me stessa, sul cui sentiero la pratica dello yoga è stata compagna preziosa e alleata silenziosa. Mi sono allenata. Alla resilienza direi, che è una parola che mi piace tanto e che voglio continuare a usare, anche se ultimamente è un po’ abusata.
Più di tutto è cambiato il mio atteggiamento mentale, anche se l’allenamento è stato per lo più fisico.
È cambiato il mio modo di fare esperienza, di considerare gli orizzonti e le proporzioni. Si è aperta la porta dell’esistenza, in qualche modo.
Non mi sono rifugiata in un ashram, non indosso tuniche immacolate né dispenso profetici consigli per il manuale di sopravvivenza che ognuno deve più o meno darsi da fare per arrangiarsi a scrivere. Anzi. Mi siedo davanti a un bicchiere di vino e chiacchiere se capita, risolvo disillusioni e incazzature a suon di lacrime e parolacce, brontolo e rido a casaccio a quel banchetto di emozioni a cui la vita e i tempi mi hanno invitata, a volte per offrirmi fiori, a volte fango, ma senza farmi vomitare, quasi mai.
Eppure, in tutto questo calderone di sentimenti, intenzioni, rimpianti e ricordi e desideri, la mia stabilità interiore è il regalo più grande che ho ricevuto in questi anni di allenamento.
Accogliere e lasciar andare, due cose per me super difficili. Accettare il cambiamento e continuare a percorrerlo. Ascoltarmi, vedermi, non giudicarmi, focalizzarmi sul respiro (beati quei momenti in cui lo porto in giro per il corpo ad arieggiare le ferite e le contrazioni) e riuscire a farlo in tanti momenti che prima non avrei nemmeno immaginato.
Questo è stato il mio regalo.
E continua a esserlo n fila al supermercato, in ufficio, nei momenti di rabbia e nelle notti insonni, nei baci alle cortecce, nelle camminate senza dislivello e in quelle senza fiato.
È stato bello imparare a essere presente.
A partecipare dello spaventoso terrore della solitudine, della morte, del dolore così come della inguaribile gioia di un sorriso, di un abbraccio, di un panino con le noci o di un uccello che racconta le sue giornate a squarciagola mentre tu canticchi sottovoce la tua minuscola ode.
Capire che essere presenti non coincide con l’essere a posto, perfetti, all’altezza, esenti da quelle emozioni che spesso crediamo di dover escludere o ignorare per trovare pace, scatenando danni imprevedibili alla nostra sanità mentale – e a quella di chi ci sta attorno.
Lo yoga, in un modo che mi resta ancora magnificamente oscuro, materializza energia: attraverso le forme assunte durante la pratica porta te nel mondo e il mondo dentro di te. Ti radica. Ti immerge. Ti fa partecipare alle cose e a te stesso. Al contempo ti isola e ti connette. Ti concentra e ti diluisce.
Se lo yoga non nasce per essere praticato all’aperto, di sicuro ti apre. Riuscire a farne pratica quotidiana nel nostro ovunque è una sorta di salto metodologico, ma anche esistenziale.