La sala parto di Eco selvatica: indiscrezioni dal backstage

Un libro, tanti articoli, post sparsi sui social, nei file o su fogli volanti, progetti da avviare, emozioni da sistemare. Chiedevano un luogo dove stare e dove incontrarsi.
Eco selvatica nasce semplicemente così, buona idea che in un periodo orfano di “sane discussioni, delle storie, degli anziani, cordoni ombelicali” prima di tutto aveva bisogno di una madre, non solo di una giornalista o di una formatrice.

Ma poi?

Far nascere un’idea non è solo partorirla.

È alimentarla, accudirla, vestirla di taglie e fibre secondo le stagioni, accompagnarla a stare in piedi senza appoggi, a muovere i suoi passi nel mondo.
Eco selvatica… per gli amici ES, radicata nella stessa terra dell’ES-senziale, del poco e del necessario, dei sensi e delle sensazioni, del sentire.

ES però non è solo poesia, anche se ogni tanto mi piacerebbe, eccome.
legno vaia eco selvatica sala parto

Fin da subito è diventata concretezza, argilla da plasmare e mani da sporcare.

Prima di tutto per aprire, costruire e gestire il sito. Facile dai, chiunque lo può fare, è pieno di promo che ti garantiscono che è tutto a portata di imbranato/a.
Già. Una cosa per chiunque. Chiunque abbia parecchi soldi, o parecchio tempo, o parecchia esperienza nel settore o parecchia capacità di accontentarsi di un template preconfigurato e di un risultato superficiale.

Io non avevo nessuna di queste cose quando a inizio febbraio, ancora da dietro le quinte, ho dato il via a questa avventura. Avevo aperto si e no un paio di volte WordPress, non sono mai andata d’accordo con Aruba e l’esame di linguaggi html che ho sostenuto lustri fa in un corso di Laurea per filosofi vi lascio immaginare quanto fosse gettonato e specifico.

Eppure eccomi qui, con questo portale nuovo fiammante, che non abbaglierà i lettori con effetti specialissimi o capriole distraenti, ma che ha la sua fucking dignity, come direbbero in qualche serie TV. E perché?

Perché impila piccoli traguardi come tronchi in una catasta.

Perché di tutte le voci di cui sopra, ho scelto di recuperare quella del tempo – e quanto ce ne è voluto!
Ho guardato ore e ore di tutorial che certe notti non so se hanno mandato prima in fumo il pc o il cervello; ho chiesto un paio d’ore di aiuto a chi ne sa più di me, ma solo per lo stretto necessario – “e mi raccomando Simone, non fare niente senza spiegarmi come si fa perché devo potermi arrangiare”. Ho chiesto reazioni a persone di fiducia – “datemi riscontri, consigli, critiche, suggerimenti… ché per migliorare alla fine mi servivano due cose: la ricerca affamata di responsi costruttivi e la capacità, a un certo punto, di fregarmene.

All’inizio infatti non avevo dubbi: Eco selvatica nasce dall’idea di una persona. Io.

Adesso che però il lavoro è impostato si ingarbugliano le domande. Chi sono io?

the ring bambina
we can do it manifesto

Sono la grafica che si è arrangiata con i loghi? Sono la web designer che ha progettato l’aspetto e la disposizione degli elementi? Sono la copywriter che ha prodotto i contenuti? O sono la commercialista che si è sbattuta a rintracciare informazioni su come gestire gli aspetti fiscali di questa “impresa” (non di status ma di fatto, e a volte pure titanica), perché la commercialista “vera” non ne sa una pippa di p.iva online che fanno il mio lavoro? O ancora sono l’esperta legale che si è cuccata pagine e pagine di riletture e versioni su GDPR e privacy? Sono l’analista che cerca di venirne fuori da Google Analytics con qualche informazione in più, ma senza l’aspetto della bimba di The Ring? O sono l’ambasciatrice di un marchio nascente, che chiede a gran voce di essere promosso? E il brand positioning (sic!) su LinkedIn, come lo mettiamo? E la newsletter? E i sistemi per gestire i supporters che – si spera – col tempo aumenteranno un po’? E la social media manager dei canali online, sono sempre io? Le foto per le pagine e gli articoli, sono mie? E in tutto ciò, la formatrice che dovrebbe potersi dedicare allo studio e alla ricerca per scrivere gli articoli e progettare i laboratori, sono ancora io? Sono io anche quella che prima dell’alba e dopo il tramonto studia e segue webinar con gli occhi a palla come un cartone giapponese, perché comunque bisognerà pur anche arricchire il proprio bagaglio culturale nell’educazione ambientale e filosofica?

Sì. La risposta è sempre sì.

E non è una risposta di cui farsi vanto. Certo, un bel vagone merci di soddisfazione ce l’hai quando pensi a quanto, in poco meno di due mesi, hai imparato, scovato, gestito, organizzato e trapolato, a volte persino divertendoti. Ti guardi un attimo allo specchio e pensi “I can do it!” – ti manca solo il fazzolettino rosso e la tonicità di quel bicipite.

ES keepitwild sala parto backstage

E poi c’è anche quell’autoironia impudente innescata dalla voce dell’ennesimo tutorial che ti consiglia di “farti impostare questi parametri da chi ti gestisce il sito” o “chiedere una consulenza al tuo avvocato”. Tu ti guardi per un secondo in giro e come nei film ti immagini a capotavola di una sala riunioni, davanti a te è schierato intorno a un tavolo di vetro lucido e design newyorkese uno staff di professionisti a tua disposizione … vabbè, passato il delirio, con una diabolica (o forse schizofrenica) risata lo dico pure gloriosamente a voce alta: “MA VAFANCUUUUUU!”, riflessa in quella finestra che mi restituisce mille versioni di me, un po’ combattente e un po’ esausta.

E insomma un po’ di vorticoso giramento ovarico ti viene anche.

Perché vorresti avere la possibilità di affidarti a chi quelle cose le sa fare e le fa per lavoro, pagandoli il giusto e dimenticandoti, mentre le riponi nella fiducia che hai nei loro profili e nella loro esperienza, di tutte le rogne che per te sono macigni e probabilmente per loro sarebbero briciole. A ciascuno le proprie competenze. E tu vorresti dedicarti alle tue, punto.

Perché poi capita che davanti allo specchio (o nel riflesso del monitor) vedi anche tutto il resto.

Un viso stanco e tirato, disegnato più dall’ansia di non fare cappellate che dal trucco. Perché, ok, passi una foto storta o una pagina che non si apre, ma ci sono questioni legali e fiscali che se non sei un magnate truffatore non prendi proprio alla leggera.
C’è la fisioterapista, che in queste settimane ci ha dato dentro con le contratture, dalla cervicale in giù.
C’è che alla fine di queste giornate da lifelong learning trovi a stento le forze per fare un paio di telefonate alle persone che ami, perché sei così stufa di chiacchiere che vorresti solo dormire.
Ma poi ci sono le ore del buio che invece che in un beato sonno ti trovano a prendere appunti su ispirazioni varie, blocchi da spostare in Elementor e nell’anima, ritocchi da sistemare, interviste da montare, crisi motivazionali e costante puntellarsi in equilibrio sul filo dell’incertezza.

A un progetto nascente che ancora non vive di vita propria puoi crederci quanto vuoi...

… ma devi anche fare i conti con la realtà. Avere i mezzi per sostenere te e la tua idea mentre insieme imparate a camminare in un nugolo di burocrazia, ostacoli e latte alle ginocchia che spesso si fa budino di fronte a certa inadempienza generalizzata nel valorizzare la cultura, la natura, le piccole realtà imprenditoriali o professionali.
Tradotto: cerchi di barcamenarti tra altri e svariati lavoretti che intanto facciano da cuscinetto, perché se tra i bisogni essenziali non c’è l’aperitivo o il vestito alla moda, ci sono invece mangiare sano o comprare qualche libro o immaginare ancora qualche ispirevole viaggio. E c’è la casa da pulire, la spesa da fare, l’ordinaria amministrazione da portare avanti. E non ho figli né, al momento, animali quindi… uh-hu, quanto tempo libero eh?!?

Poi c’è anche lei, quell’ospite infida e ingombrante, la tentazione all’autosabotaggio.

Quella che ti sibila nell’orecchio cose tipo “tanto c’è il Covid e non si può fare niente”, “lascia stare dai, c’è tempo, e comunque nessuno per un po’ avrà voglia di incontrarsi, la gente avrà paura”. Quella tentazione che nelle rughe del viso, della fatica e dello sconforto si insinua neanche fosse acido ialuronico e ti compatta disfattismo, voglia di lasciar perdere, sensazioni di smarrimento a manetta, soprattutto davanti alla miriade di questioni da affrontare tra le più disparate, da quelle grafiche a quelle assicurative, da quelle fiscali a quelle legali, che ti si rovesciano addosso da questa Pandora panciuta che è il sito/progetto di una libera professionista.

Eco selvatica però una cosa me la sta dimostrando. Perché è vero che di ES sono madre, ma mica le devo insegnare tutto io no? Posso anche imparare.

Per esempio a non rinnegarmi mai, nelle idee in cui credo e che mi sembrano buone.
E altrettanto negli scoramenti che fisiologicamente accompagnano un percorso di (auto)determinazione.
Sto imparando a non arrendermi proprio come fa la natura, anche se io sconto un rapporto un po’ più umano con il tempo. Ma alla fine, se dopo anni ci giro sempre intorno e sempre qui ritorno, vuol dire che in quello che faccio ci trovo proprio un gran senso, che mi aiuta anche a credere in me stessa e in un mondo più gentile. Allo stesso tempo però non mi è consentito ignorare o sorvolare sui momenti deprimenti, o liquidarli in fretta come effetti collaterali di giorni difficili, o pesanti, o circoscritti a poche settimane dove “stringi i denti”. Un cazzo. Perché a forza di stringere i denti la fisioterapista mi ha massaggiato perfino la mandibola, it’s no joke.

Non si può fare a finta che la pesantezza di questo mondo non ci lasci cicatrici addosso.

Il fatto è questo: ricordarsi poco per volta alcuni fondamentali del gioco. Ogni volta che mi siedo a tavola mi cade l’occhio su un “friendly reminder” lasciato vicino alla ciotola della frutta, che mi invita a praticare il radicamento, il pensiero positivo, il respiro consapevole – e mi aiuta. Perché, appunto, è promemoria di una voce amica, che viene esattamente da dentro me nei momenti di lucidità. Ma ci sono anche un altro paio di cose che valgono decisamente tutto questo macello di alti e bassi.
Uno: quelle crepe del cuore. Crepe che hanno senso solo se poi ci fai scorrere l’oro, come nei vasi kintsugi.
Due: essere capace di dirmi grazie. Perché anche se non sempre ci riesco come vorrei, so di continuare a tenere presente il valore della cura: per me, per le cose che faccio, per gli altri viventi.