Ho nostalgia del primo lockdown

Quello che ci ha trovati tutti allo stesso modo impreparati e ci ha resi tutti allo stesso modo fragili, spaventati, fiduciosi, impegnati, solidali, fantasiosi.
Quello che ci ha chiusi in casa senza discriminazioni di lavoro o comune.
Quello che mi ha permesso di lavorare in smart working, ma anche di leggere libri, cucinare con calma, ascoltare musica, guardare le rondini dalla finestra e accorgermi che la stagione stava cambiando.
Quello in cui non ero ancora nauseata dagli schermi, dalla tecnologia, dalle videocall.
Quello in cui non ho cantato dal terrazzo con i vicini (vivo pur sempre nel composto e contenuto Trentino) o quello dove non ho appeso striscioni con un fanciullesco arcobaleno, anche se sì, qualche misera speranza che sarebbe “andato tutto bene” ce l’avevo eccome, ma solo “se”.

Se l’uomo avesse capito alcune faccende essenziali della vita, della sua posizione nell’ecosistema e sulla terra, dei suoi limiti e delle sue potenzialità. Dei suoi doveri, oltre che dei suoi diritti.

Quindi sì, ho nostalgia del lockdown della primavera 2020.

E adesso sono sul punto di crollare. Lo sono io, come molti altri che conosco. Lo siamo per motivi economici, perché questa situazione non è un problema solo di ristoranti, commercianti e parrucchieri o sistema-Paese. Lo è anche e soprattutto per i più piccoli, tra cui gli operatori della cultura a p.iva. Che sono nella merda, non solo perché in questo periodo non guadagnano praticamente niente, ma anche perché, anche quando le cose vanno bene, lavorano in un settore che nell’Italia culla della cultura occidentale è considerato alla stregua di un hobby, un “in più” a cui dedicarsi se non serve – o non si è capaci – di fare altro, di più utile o più pratico.

Sono passati giorni, settimane, mesi in cui ci sarebbe stato il tempo di riflettere e agire. E invece. Eccoci di nuovo qui, uguali ad allora, ma alcuni più uguali di altri.

Siamo ancora prigionieri, ma stavolta con la subdola convinzione che vada meglio.
Stavolta siamo più liberi.
Liberi di lavorare anche in zona rossa, liberi di fare la spesa dove vogliamo, liberi di andare a messa nella chiesa che abitualmente frequentiamo, liberi di fare attività sportiva o motoria dove cazzo ci pare all’interno del nostro comune, salvo magari abitare in un comune di pochi chilometri quadrati… ché non tutti viviamo nei capoluoghi o nelle metropoli.

Insomma, siamo liberi adesso, dai. Liberi di produrre, di consumare, di essere egoisti al punto giusto e sguazzare in quelle piccole concessioni che noi abbiamo e chissenefrega se gli altri non hanno, concessioni che ci siamo abituati ad apprezzare come fossero un regalo, e non un diritto.

Finalmente posso fare parte di un sistema.

Un sistema che mi inghiotte con le sue logiche di bastone e carota, mentre mi proibisce anche le cose più semplici, come prendere la macchina da sola per oltrepassare gli ennesimi confini disegnati su carta dall’uomo e andarmi a fare due passi in mezzo a un bosco, più vicina all’essenziale, più lontana da qui.

Posso andare a lavorare in ufficio o in magazzino e stare a un metro da colleghi che non rappresentano alcun affetto, ma non posso andare a casa dei miei genitori, che sono invece l’amore di cui ho bisogno. Almeno fino a Pasqua, quando da loro ci potrò andare perché a Pasqua il virus dice che fa pausa e ci lascia festeggiare la resurrezione.

Ho perso fiducia nei provvedimenti messi in campo.

Li rispetto. Perché non potrei pagare una multa che è metà delle entrate che in questi mesi riesco con difficoltà a racimolare, anche io vittima e al contempo alleata di quegli stessi meccanismi che disprezzo – che non sono il rispetto della Legge, ma di quelle leggi che ci rendono diseguali.
Non ci vedo più un senso, se non quello di accontentare logiche di mercato e di presunta salute pubblica che asfaltano la nostra via verso l’autodistruzione, nel frattempo tenendo buono il gregge che siamo diventati – e purtroppo senza nemmeno un buon pastore (laico o religioso che sia).

Ci siamo asserviti alla dipendenza, stanchi e stremati da questo tira e molla e dalla sensazione che nessuno sappia esattamente cosa fare – anche se alcuni hanno il potere o la voce grossa o la poltrona giusta per fare a finta che non sia così.

Siamo incapaci di lucidità, abbagliati dalla speranza di un vaccino di cui non conosciamo le conseguenze, mentre il virus intanto muta, fa il suo lavoro e cerca di sopravvivere alla fine, come noi.

Solo che noi rimaniamo un passo indietro rispetto alla natura, sempre.

Non facciamo più alcun caso alla sofferenza degli altri, fagocitati dalla paura della nostra.
E chi di noi ha avuto la fortuna di non avere parenti o amici morti per Covid in compagnia di un’inumana solitudine, spera un’unica cosa. Non prendere il virus. Ma per non morire di Covid, rischiamo di sbriciolarci nella depressione e nell’asocialità.

Ho nostalgia del primo lockdown, sì.

Quello in cui un the caldo non mi salvava, come non mi salva ora. Ma in cui riuscivo ancora a credere alla leggerezza, forse perché non sapevo  che avrei avuto tutti questi mesi per diventare la donna più cinica, sconfortata e demoralizzata che sono ora.