Irene Borgna l’ho conosciuta qualche anno fa a un convegno sulla tutela del lupo sulle Alpi. Anche lei laureata in filosofia, ha un dottorato di ricerca in antropologia alpina con Marco Aime e ha fatto della montagna la sua passione e il suo mestiere. E la racconta che ci staresti ore ad ascoltarla.
Perché è ironica, competente, accattivante.
Ti cattura con lo sguardo e con il sorriso prima ancora che con le parole.
Poi ascolti le sue parole, e vorresti averne ancora, e ancora.
Un ingresso forse più stretto e persino scomodo, ma che porta dritto alle stanze meno frequentate, quelle per pochi, dove improvvisamente succedono le cose che non si possono fotografare a meno di rinunciare a viverle, quelle dove i luoghi strappano smorfie di paura e disgusto a chi non ne è degno.
Quelle chiavi le ho ancora con me: ogni volta che inizio a raccontare si sente scattare un lucchetto.
In questo libro non emerge tutta la sua effervescenza perché la narrazione lascio spazio alla vita del protagonista, il “signore delle cenge rocciose”, uomo ruvido e composto.
La sua capacità di avvicinarsi con discrezione alle storie e raccontarle con dolcezza però in queste pagine c’è tutta. E ci avvicina alla vita di Louis Oreiller, memoria fatta carne di Storia e storie, figura a tratti scomoda che qui diventa quasi epopea della montagna valdostana.
Un mondo ostico, rude, fatto di regole non scritte e, spesso, di pure e semplici questioni di sopravvivenza. Eppure un mondo che ho sentito familiare, familiare nelle sue contraddizioni, nelle sue pieghe da stendere o stropicciare, nei suoi chiaroscuri.